Mi sarebbe stato più facile parlare di Carniti, ancora in vita. I sentimenti di profonda amicizia, l’intensità della frequentazione fraterna, la carica di umanità e rispetto reciproci interferiscono con la volontà di guardare al suo “detto” e al suo “fatto” con distacco.
Pensava in grande, sempre. E agiva in modo coerente. Ma la corrispondenza con la realtà, sia del pensiero che dell’azione, era nei fatti. Certo, quel pensiero lungo e profondo e quell’agire con energia e tempestivamente lo rendevano fastidioso a chi non riusciva a guardare oltre la punta del proprio naso. Il conflitto sociale era nelle cose, in quegli anni sessanta e settanta. Lui aveva la capacità di vederlo prima degli altri e di sistematizzarlo – con la collaborazione di uno stuolo di giovani pensatori, diventati tutti noti negli anni successivi – in modo da trasformare il conflitto in un nuovo equilibrio.
Assieme a Trentin e a Benvenuto ha saputo dare un senso all’azione sindacale sempre riformista nei contenuti e partecipativo nelle modalità. Il corporativismo era lontano mille miglia dalla sua cultura cattolica progressista e un po’ anche filo-americana. Anche le lotte più aspre di quel ventennio, così tumultuoso, furono canalizzate verso soluzioni che soddisfacevano l’esigenza di coinvolgere sempre i lavoratori nelle decisioni e nello stesso tempo caratterizzavano in chiave innovativa ma non eversiva la condizione di lavoro nelle aziende piccole e grandi.