Invecchiamento della popolazione, aumento delle cronicità e dell’aspettativa di vita sono alcuni dei fattori di cambiamento più importanti con cui il nostro sistema sanitario si sta confrontando.
Secondo le stime di Osservasalute 2018 tra meno di 10 anni il numero di malati cronici italiani salirà ad oltre 25 milioni, di cui oltre 14 milioni multipatologici. E le persone ultra 65enni con gravi limitazioni motorie passeranno dai 3 milioni di oggi ad oltre 3,5 milioni nel 2028. Stesso trend in Lombardia, dove gli over 65 sono più di 2,3 milioni di cui circa 1,5 milioni con una grave patologia. Al riguardo sono circa 3 milioni gli assistiti cronici censiti in Lombardia, più del 30% della popolazione, che impegnano circa il 70% delle risorse sanitarie in ricoveri, specialistica e farmaci.
Questo trend epidemiologico sta animando da tempo il dibattito tecnico politico sulla necessità di attivare servizi di cure intermedie per la gestione delle fasi di transizione tra la malattia acuta e cronica, con l’obiettivo di garantire la continuità di cura tra servizi ospedalieri e territoriali (e viceversa tra servizi territoriali e ospedalieri), e ridurre il ricorso non appropriato ai servizi sanitari.
Il prevalere delle malattie croniche degenerative invalidanti su quelle acute, sta determinando le condizioni di una “tempesta perfetta” che può mettere a rischio la sostenibilità economica e organizzativa dei sistemi sanitari non solo di quello italiano. Lo stiamo osservando, prima e dopo pandemia, soprattutto dove i servizi sanitari si sono organizzati nel corso degli anni con logiche “ospedalocentriche”. Quindi sistemi, adatti a rispondere in modo intensivo e tecnologico alla malattia acuta ma spesso inadeguati a garantire la “presa in cura” dell’assistito affetto da malattie croniche e invalidanti. Spesso persone anziane funzionalmente fragili, affette da più patologie.
La politica sanitaria attuata negli ultimi anni, anche in conseguenza del Dm. n. 70/2015, ha portato a una progressiva riduzione della percentuale di ospedalizzazione e conseguente diminuzione dei posti letto per acuti.
In Italia si sono tagliati troppi posti letto negli ospedali, tanto è vero che con 3,6 pl ogni 1.000 abitanti siamo ben al di sotto della media Ue di 5 pl ogni 1.000. La riduzione pl non aveva lo scopo di ridurre le risposte necessarie in termini di cura agli assistiti ma di spostare risorse “fresche” verso medicina e servizi territoriali.
Questo non è avvenuto, e sono emerse tutte le note criticità organizzative di sistema. In particolare ha reso più che mai evidente la necessità di potenziare continuità assistenziale e dimissioni protette per rispondere adeguatamente ai bisogni degli assistiti e famiglie, e per ridurre il fenomeno ricorrente dei ricoveri ripetuti e degli accessi al pronto soccorso.
Garantire la presa in carico dell’assistito, dall’inizio fino al completamento del suo percorso di salute. Questa è tuttora la sfida aperta per l’intero sistema sanitario che non ha ancora definito standard qualitativi, strutturali, tecnologici per l’assistenza territoriale da nord a sud, nei piccoli centri come nelle grandi città.
Con la pandemia ci si è resi conto che non si può contare solo sull’ospedale ma occorre creare nel territorio una medicina territoriale di riferimento affidabile e presente. E dopo tanti convegni e proclami è arrivato il momento di realizzare “qualcosa di concreto”.
Il territorio, questo “non luogo che oggi non c’è”, risponde ad esigenze vere e reali che viviamo tutti i giorni quando i problemi da gestire sono tanti e tutti insieme. Come accade per i numerosi anziani affetti da più cronicità. La stessa Oms individua la continuità assistenziale come indicatore del buon funzionamento di un Servizio sanitario. E recentemente, i ministri della salute dei paesi più industrializzati hanno ribadito che la continuità assistenziale, programmata e integrata tra i diversi professionisti e luoghi di cura, è una risposta ineludibile in una società che invecchia sotto il peso delle malattie croniche.
Continuità assistenziale, dimissioni protette, integrazione sociosanitaria, medicina territoriale, assistenza domiciliare, residenze sanitarie assistenziali, case della salute, ospedali di comunità, medici di medicina generale, infermieri di comunità, telemedicina sono concetti organizzativi che devono diventare realtà nel nostro sistema sanitario.
Oggi, la disomogeneità delle organizzazioni sanitarie nelle diverse regioni italiane nell’erogazione dei servizi sanitari e sociosanitari rende difficile anche fare confronti e individuare modelli efficaci di “buona pratica” di medicina territoriale, anche dove qualcosa è stato fatto.
La parola continuità assistenziale spesso è molto abusata. In particolare si parla sempre di continuità ospedale – territorio ma poco nell’altro verso di continuità territorio – ospedale. Dal punto di vista pratico, si è fatto poco in tutti e due i sensi. In Lombardia qualcosa è stato deliberato ma nessuno ha controllato l’applicazione sul territorio. Questo ha provocato evidenti disomogeneità di procedure a livello locale anche di quel poco che alcuni volenterosi hanno praticato. Percorsi sono stati avanzati in alcune Asst ma in maniera parcellizzata e disorganizzata, con Ats e assessorato al Welfare che non si sono distinti per coordinare linee di indirizzo comuni in tutti i territori.
L’obiettivo comune deve essere quello di giungere progressivamente a “gruppi di cura” tra ospedale e territorio. Gruppi multidisciplinari e multiprofessionali che si confrontano e integrano, rendendo meno rigida la distinzione tra ospedale e territorio. E nel concetto di continuità assistenziale, le varie specialità mediche devono avere la possibilità di seguire gli ammalati dalla fase acuta in ospedale alla fase di monitoraggio e cura nel territorio. Quindi, per una reale presa in carico condivisa è fondamentale adeguare le procedure amministrative e informatiche delle dimissioni ospedaliere.
Questo tipo di strutturazione dell’assistenza deve portare al superamento dell’ospedale per intensità di cure in un ospedale per percorsi e processi, che non si svolgono solo in ospedale ma si estendono in soluzioni di continuità anche nel territorio. Per rendere attiva la collaborazione tra specialisti ospedalieri e medici territoriali di riferimento sono essenziali sistemi di collegamento informatici e digitali, che funzionino. Al riguardo, la dimissione dai reparti ospedalieri non comporta quasi mai la guarigione ma il passaggio a un altro tipo di cura, e quindi la interconnessione tra i diversi soggetti deve essere semplice e pratica.
Tutte le cure, sia ai pazienti cronici sia a quelli che presentano quadri definibili come acuzie territoriali, devono essere erogate dai tanti singoli ambulatori aggregati di medicina generale e dalla rete assistenziale costituita da Aft (Aggregazioni funzionali territoriali) e Uccp (Unità Complesse di Cure Primarie), in stretta relazione con i servizi specialistici ospedalieri.
Le case della salute, presidi di comunità, case della comunità, Press, Pot o altro non possono essere solo dei contenitori di studi medici ma devono cominciare a essere anche delle strutture che erogano servizi specialistici territoriali, con medici di medicina generale in stretto rapporto con la specialistica ospedaliera. Inoltre, nel territorio ci deve essere un luogo fisico di riferimento per i cittadini dove rivolgersi, dove chiedere aiuto, dove informarsi: il Distretto. Punto di assistenza primaria, di igiene e prevenzione che deve gestire i percorsi socio sanitari e sanitari degli assistiti secondo priorità sociale, clinica e programmazione. Senza Distretto, inteso come luogo fisico e punto di riferimento della comunità, non si va da nessuna parte.
La rete territoriale deve comprendere anche le cure intermedie e le cure palliative che devono essere a disposizione dei medici di medicina generale per la gestione complessa degli assistiti senza dover transitare dal ricovero ospedaliero. E non dimenticare la figura dell’infermiere di famiglia, che si affianca al medico nella presa in carico, come raccordo e punto di riferimento.
La continuità assistenziale tra ospedale e territorio, per una vera integrazione non solo tra i diversi professionisti coinvolti ma anche tra i diversi livelli di assistenza, è la vera sfida del futuro della sanità.
Credo che il futuro sia puntare sempre più su questa integrazione ospedale e territorio. Tuttavia serviranno tempo, proposte e risorse per costruire un nuovo modello. E non sarà facile trovare soluzioni multiprofessionali e integrate che non sono mai decollate anche perché non è prevista una formazione che metta gli specialisti ospedalieri in grado di relazionarsi con le caratteristiche tipiche della rete territoriale.
Anche la politica deve fare la sua parte. Analogamente a quanto fatto per gli ospedali, Stato e Regioni devono definire standard qualitativi, strutturali, tecnologici per l’assistenza territoriale da nord a sud, nei piccoli centri come nelle grandi città. E per dare risposta concreta alla medicina territoriale va attuato il Piano nazionale della cronicità non ancora recepito in tutte le regioni. Occorre, quindi, avviare azioni e investimenti in termini di risorse per sviluppare una vera connessione tra ospedale e territorio. Individuare e formare nelle università professionisti di continuità: medici, infermieri, fisioterapisti, altri operatori che si coordinano in team di cure intermedie. E in questi team devono collaborare anche operatori del sociale, che valutano i bisogni e che stendono progetti assistenziali individuali.
Desidero ringraziare lo Spi Cgil pensionati Lombardia per la cortese e gradita opportunità. E questo contributo non ha la pretesa di essere esaustivo ma molto più modestamente di mettere in luce alcuni temi, molto cari a noi sindacati pensionati, in vista del dibattito sulla legge di riordino della sanità lombarda.
di Emilio Didonè segretario generale Fnp Cisl pensionati Lombardia