Il Rapporto pubblicato oggi ha un capitolo dedicato all’impatto del Covid-19 e del lockdown.
Ed è un ritratto a tutto tondo degli italiani: dalla famiglia alla vita sociale, dal lavoro, all’aspettativa di vita. La pandemia ha accentuato le differenze sociali e colpito più pesantemente i più deboli.
Disuguaglianze “significative” solcano il nostro Paese. E, avverte l’Istat nel Rapporto annuale, il Covid rischia di accentuarle, allargando i divari esistenti, con una scala sociale nella quale è più facile scendere che salire.
Il mercato del lavoro si restringe – il 12% delle imprese pensa di tagliare – proprio per le fasce più deboli, giovani e donne.
La didattica a distanza vede in svantaggio bambini e ragazzi del Mezzogiorno che vivono in famiglie con un basso livello di istruzione.
La natalità potrebbe scendere ancora, eppure gli italiani i figli li desiderano, due l’ideale. Ma l’Istat sottolinea anche come il Paese abbia reagito. “Il segno distintivo” nel lockdown è stato di “forte coesione”. L’Istituto invita a guardare alla criticità strutturali del Paese come “leve della ripresa”.
Tinte fosche sul tema lavoro.
Il tasso di irregolarità dell’occupazione è più alto tra le donne, nel Mezzogiorno, tra i lavoratori molto giovani: il tasso è al 23,8% in agricoltura, al 16,0% nelle costruzioni e al 13,9% nei servizi, con punte del 17,1% nel settore degli alberghi e dei pubblici esercizi, il 23,8% nelle attività ricreative e ben il 58,3% nel comparto del lavoro domestico.
Nella difficile situazione economica generata dalle misure di contrasto alla pandemia: «circa 2,1 milioni di famiglie (per oltre 6 milioni di individui) hanno almeno un occupato irregolare; la metà, poco più di un milione, ha esclusivamente occupati non regolari».
In generale, «per la generazione più giovane è diminuita la probabilità di ascesa sociale: per il 26,6% dei nati nell’ultima generazione (1972-1986) l’ascensore scende verso il basso e supera, per la prima volta, la percentuale di chi sale, cioè il 24,9%: sono sempre di più i figli che hanno una condizione economica inferiore a quella dei genitori».
Il lavoro da remoto – non chiamiamolo smart working – potrebbe essere una risposta. Secondo l’Istat, dopo le esperienze del lockdown – lo potrebbero utilizzare ben «8,2 milioni di occupati (il 35,7%) con professioni che lo consentirebbero; si scende a 7 milioni escludendo le professioni per le quali in condizioni di normalità è comunque preferibile la presenza sul lavoro (ad esempio gli insegnanti)».